Il corpo: sempre più sede e depositario di un marchio identitario, sostituito al volto come fisiognomica rivelatrice del tratto di personalità, come terreno di indagine di ciò che da familiare diviene inquietante, perturbante ( uncanny), per dirla à la Freud .
Il volto, dal Rinascimento, era sede dello studio dell’anima, basti pensare a quel meraviglioso capolavoro che è il ‘Doppio Ritratto’ attribuito a Giorgione , esposto a Roma in Palazzo Venezia. Datato fra 1500 e 1510, è un unicum fino a Caravaggio; così, nel ’79, Ballarin definiva quest’opera incredibilmente suggestiva, un ritratto involontario, si può dire, non idealizzato, inteso come medium che rivela l’anima nella sua essenza, che sviscera i significati più profondi dell’esistenza contrapponendosi all’accademica ritrattistica ufficiale.
Il corpo diviene regno di Identità, dopo Freud, diviene sede di pulsioni, di emozioni, di slittamento di senso, dal suo interno alla carne, alla pelle.
Vanessa Beecroft gioca col corpo femminile, rifacendosi al Rinascimento, mediante meravigliose vestali immerse in tuniche bianche, che le rendono come elementi organici della natura, quasi diafane e trasparenti, in cui il corpo seminascosto e al contempo rivelato dai panneggi minimali raggiunge una dimensione corale unica, senza coreuta, l’eterno femminino che dal classicismo arriva al post-moderno, con volti diafani o nascosti. Un misticismo sensuale, in performances che sono danze emozionali in cui l’Io è allo specchio, uno specchio senza tempo, senza doppi, senza enigmi, nella sua essenza materiale che ha il soffio dell’eternità.
Gioca anche giochi più trasgressivi, Beecroft: è l’artista dei corpi le cui opere sfuggono a una qualsiasi definizione classica. Performances in cui le immagini viventi, realizzate con ragazzi seminude, spesso immobili, sono simbolo della nostra contemporaneità, una rappresentazione dei costumi del nuovo millennio raccontata attraverso corpi svestiti di modelle professioniste, immortalate e fermate attraverso scatti fotografici e video .
Il corpo è assolutamente il protagonista.
C’è un corpo sacro. La bellezza femminile è indagata nelle sue molteplici sfaccettature, nella sua fisicità, nel rapporto con l’Arte del passato. Il corpo è arte, l’ Aura di queste performances sta nell’essere dimensioni eterne del femminino, pur nella dimensione temporale ‘di passaggio’ che le caratterizza per forza di cosa, per la natura stessa di una performance.
Il corpo e la bellezza della Beecroft si riferiscono alla pittura di Botticelli e di Lippi, si intrecciano con motivi autobiografici ( e questo è sempre vero in un genere come la Performance) e con suggestioni derivanti dallo spazio circostante, con rigorosa attenzione all’impianto scenografico e figurativo, che rende la performance più vicina alla pittura che all’azione vera e propria .
Scultura e performance si attuano in questo altare sacro dell’apparire, in questa dimensione corale di memoria greca ( e dunque , catartica) e vengono ulteriormente stigmatizzati con la ripresa fotografica e video, espedienti mediatici che completano l’ “eternità” connessa alla sua ricerca, principalmente rivolta al corpo femminile e alla condizione femminile, il cui medium è appunto ‘the body’.
Con il corpo, attraversa alcuni degli aspetti più controversi e intriganti della realtà sociale e culturale di oggi, tra cui il rapporto tra cibo e sessualità e l’ossessione per la bellezza e la forma fisica, fino alle conseguenze più tragiche dell’anoressia.
Con la Body Art il corpo, considerato quasi sorgente inesauribile di ogni atto di vita, tenta di riappropriarsi di quanto gli è stato sottratto nell’anonimia e nell’artificialità dell’universo contemporaneo.
Il luogo in cui opera la Beecroft si trova nel precario punto di intersezione fra il corpo stesso, giocato in prima persona, e la registrazione meccanica, fra la diretta attività fisica e l’immagine tecnologica ( foto, film, videotape) .
Emblematica della ricerca estetica di Vanessa, la Maternità in tre momenti, in cui il bianco e il nero della pelle si intrecciano con il rosso e il nero delle vesti, in cui il tema dell’uguaglianza si intreccia con il tema del valore estetico dell’arte ( la scelta dei colori nelle vesti ad esempio ), in cui tre maternità diverse sono acccomunate da una duplice maternità, da un doppio figlio, rispetto alle maternità sacre tradizionali, che sono sconvolte sia nei colori del bambino sia nel numero.
La maternità sacra è il topos visivo più inflazionato e famoso della storia dell’arte Occidentale dal cristianesimo in poi; in Vanessa Beecroft rivive un nuovo Rinascimento, inteso come valore estetico divergente ma anche valore intrinseco divergente, in cui diversità e alterità si sostituiscono alla tradizione e alla regola. Sono Madonne attraversate dall’ago e dal filo di Louise Bourgeois, senza una connessione a Freud così lampante, ma certamente un ago e un filo che cuciono una nuova veste femminile, quella della libertà, pur nel rispetto di un’estetica che però è un ‘estetica capace di divergere, di differire.
C’è, poi, un corpo-brand. Un corpo marchio. O marchiato , si può affermare. Un doppio intreccio di corpi, doppi anche nel colore ( di nuovo, pelle bianca e pelle nera ): bianchi e neri acccostati come spunto di riflessione e nell’ironica disposizione spaziale che fa indubbio riferimento al marchio di Louis Vuitton . I corpi nudi bianchi formano la L e i corpi nudi neri formano la V.
La riflessione della Beecroft in questa immagine è sull’identità del corpo nella società occidentale dominata dal Marchio, dal sistema della Moda, sulla possibilità dell’identità singola ( resa individuale al massimo attraverso la scelta della nudità, primitiva e arcaica, in netto contrasto con la contemporaneità e l’artificio del brand ) di sopravvivere, se perfino corpi nudi si incastrano in modo da inneggiare a una finta coreografia di danza che è in realtà un tributo a una griffe famosa, resa ancestrale . Nudità e brand si incastrano in un rimando senza inizio e senza fine, senza causa né effetto : il brand è umanizzato dal corpo in flesh&bones, come fosse così attuale da essere davvero vivente, e la nudità è azzerata, marmorizzata dall’essere impostata come un brand. Somma zero : niente prevale. L’intreccio è ineluttabile, l’arte diventa brand, il brand diventa arte, il corpo diventa arte e brand al contempo.
Le singole identità fanno sì parte di un ingranaggio che fagocita e schiaccia, che tende ad appiattire e a svuotare per lasciare spazio a significati artificiali e commerciali legati al Sé ; ma è anche vero che il brand diventa organico e viene smitizzato in questa connessione con la carne nuda, una sorta di ‘pasto nudo’ alla William Burrough . Non si sa se la Moda divori il corpo o il corpo si unisca ad essa senza perdersi.
Apre domande, Beecroft, e dona sicuramente risposte estetiche, in cui il ‘sentire’ è appunto primario, indispensabile, riossigenante.